Italjet Dragster e Formula, due scooter da bomber per una storia tutta italiana - Rollingsteel.it

2023-02-05 17:23:08 By : Ms. Cecy Yan

Pensate ad un nome figo. Ma figo vero, tipo per un marchio motociclistico. Qualcosa che rimandi a qualcos’altro di molto veloce e gagliardo. Non so, Honda? No, quello è solo un cognome. Ducati? Pure quello è solo un cognome. Triumph? Già meglio, ma ancora non ci siamo. Sforzatevi di più.

Partite cercando di pensare a quale sia il ferro più ferro di tutti. Lo dico io: un caccia, cosa c’è di più figo di un caccia? Pensate a cosa debba essere pilotare una Formula 1, una MotoGP, un’imbarcazione da corsa, e poi pensate a cosa debba essere pilotare un caccia. Secondo me non c’è storia.

Bene, quindi anche se si producono ciclomotori e motorette la gente deve pensare che da questa fabbrica italiana escano attrezzi da mach 1 o giù di lì. Qualcosa tipo Cacciaitalico… no, non suona bene. Italjet! Italjet è figo vero. Continuate pure a pensare ad un nome più duro di questo ma dubito che lo troverete.

Italjet nacque nel 1960 ma all’inizio ancora non si chiamava così, nemmeno loro ci arrivarono subito. Italjet nacque nel 1960 come Italemmezeta. Nome un po’ assurdo, se vogliamo continuare a parlare di nomi, che però aveva una motivazione ben precisa a supporto. Italemmezeta produceva motocicli e ciclomotori attorno a propulsori provenienti dalla Germania Est, gli MZ. Più chiaro di così. A ben vedere, il solo fatto che una casa motociclistica italiana potesse intrattenere rapporti commerciali con un’azienda di un paese del blocco sovietico dà da pensare. Chi era il pazzo che la gestiva? Più che pazzo, era un tipo di gran talento, vediamo un po’.

Rispondeva al nome di Leopoldo Tartarini, nato nel 1932 a Bologna (e ahinoi spirato nel 2015), figlio di Egisto, quest’ultimo già infoiato di motori, rivenditore e pilota nientemeno che di sidecar a marchio Moto Guzzi. Leopoldo respirò quindi benzina e miscela sin da bambino, a quattro anni il padre fabbricò apposta per lui un mini sidecar sul quale far rischiare la vita non solo al figlio maschio, ma anche alle femmine, che trovavano posto a turno come passeggere del responsabile ed esperto pilota. In pratica, un padre con l’età cerebrale dei figli, a ben vedere caso non raro quando si tratta di trasmettere la passione per i motori alla prole.

Leopoldo però non era un ragazzino scapestrato qualsiasi, aveva qualcosa in più degli altri. A vent’anni si presentò per la prima volta al via della leggendaria Milano-Taranto, una gran fondo stradale fuori di testa lunga 1283 km che si era corsa per la prima volta nel ’37 ed era stata vinta alla media di 104 chilometri l’ora da tal Guglielmo Sandri su una Guzzi 500. Quella a cui si iscrisse Tartarini era però quella del ’52, la terza edizione del dopoguerra. Il giovine si schierò al via con un sidercar (aridaje) messo assieme in casa attorno ad un motore BSA acquistato rigorosamente usato. Il catorcio missile motorizzato BSA con Tartarini ai comandi e il compare Sergio Calza come passeggero si prese il lusso di vincere la classe davanti a gente che quello sport lo faceva di mestiere già da un pezzo.

L’anno successivo fu la volta del MotoGiro d’Italia, nato a Bologna. Tartarini ci aveva preso gusto e fu al via con una Benelli 125 preparata ancora in casa. La corsa durava sei giorni e il buon Leopoldo stavolta vinse la classifica assoluta. Poco dopo ancora la Milano-Taranto, sempre sulla Benelli 125 che però nel frattempo era diventata moto ufficiale. Ancora una volta, primo di categoria.

Insomma, Tartarini in breve si era affermato tra i più rilevanti piloti di corse stradali della penisola e parallelamente, per finanziare il giochino che come si sa non è mai gratuito, aveva aperto nella sua Bologna una concessionaria Benelli. Poco più tardi, nel ’55, cambiò colori passando tra le fila Ducati sia come pilota che come commerciante.

Arrivò però il 1957, annus horribilis per le gare su strada in Italia: alla Mille Miglia automobilistica si consumò quella che è passata alla storia come la tragedia di Guidizzolo. Nei pressi di Mantova la Ferrari 335 S (un ferro del dio pazzesco, ve la mettiamo qui sotto) dell’equipaggio Portago-Nelson uscì di strada a ben oltre 200 orari a causa dello scoppio di uno pneumatico, travolgendo il pubblico e uccidendo nove persone oltre ai due conducenti. Fu l’ultima edizione della Mille Miglia nella formula originaria; la Milano-Taranto che era in programma di lì a pochi giorni fu cancellata.

Tartarini si ritrovò praticamente disoccupato, ma essendo ancora sotto contratto con Ducati s’inventò un’altra iniziativa per promuovere sé stesso e il marchio: il giro del mondo in moto. Lui e un amico furono i primi italiani di sempre a compiere l’impresa, con due Ducati 175 per le mani. Fra il 30 settembre ’57 e il 5 settembre ’58 i due attraversarono 42 nazioni, comprese Australia, Nuova Zelanda, Argentina e tanti altri luoghi che un po’ tutti vorremmo esplorare con una moto sotto le chiappe.

La Ferrari 335 S incriminata, pilotata da Alfonso de Portago 

Manifesto dell’impresa mondiale di Tartarini

L’anno successivo il buon Leopoldino iniziò a covare l’idea di mettere in piedi una propria casa motociclistica, sfruttando la propria manualità, l’esperienza come venditore maturata gestendo la concessionaria ma soprattutto sfruttando il momento di grande notorietà di cui godeva. Era dunque il 4 febbraio 1960 quando fu costituita la Italemmezeta. Come anticipato, di fatto a Bologna si realizzavano ciclistiche, mentre i motori arrivavano dalla Germania Est. In effetti Tartarini continuò su questa strada per tutto il primo ventennio d’attività, legandosi anche ad altri marchi ma arrivando a produrre il primo motore proprio solo nel 1980. Nella seconda metà degli anni ’60 arrivò la collaborazione con Triumph, spuntata bluffando clamorosamente sulla capacità produttiva dell’azienda e promettendo agli inglesi numeri che mai si sarebbero potuti raggiungere.

Ma era avvenuto attorno alla metà del decennio il famigerato cambio di nome da Italemmezeta a Italjet, quando di preciso non è chiaro. Quello che è certo è che nel ’62 Italemmezeta mise in produzione un ciclomotore dallo stile sportivo (ne ricordate qualcun altro per caso?) e lo chiamò proprio Italjet. Poi evidentemente qualcuno si rese conto che il nome era troppo figo per legarlo ad un singolo prodotto e si decise di chiamare così tutta l’azienda.

Italemmezeta-Italjet si distinse subito per lo stile audace, ispirato alle corse anche per i mezzi non da corsa. Per i ragazzi Italjet divenne un mito grazie a piccoli e bellissimi cancelli cancelli come il Mustang SS, poi il Vampire 60 progettato specificamente per le corse Cadetti e altri ancora. Le linee, ma anche alcune soluzioni tecniche, delle moto di Tartarini prendevano apertamente spunto da moto di cilindrata maggiore come le Ducati, le Aermacchi e le Guzzi. Insomma, in Italjet cominciarono prestissimo a darci giù pesante Di Brutto®. Esportazioni in Europa, America del nord e del sud, Africa; dopo appena cinque anni di vita Italjet aveva un proprio distributore in California, dove c’erano i fighi veri o almeno così pare. Arrivarono poi moto più grosse con i già menzionati motori Triumph, altre con motori Jawa-CZ, continuò la collaborazione di Tartarini con Ducati in qualità di stilista. Dalla fabbrica di Bologna uscirono altri mezzi fuori di testa come dei ciclomotori pieghevoli tipo il Kit-Kat, con ruote da 5” e progettato per stare in una sacca da riporre in bagagliaio o da portarsi appresso addirittura in treno, seguito anni più tardi dal Pack-A-Way, un bagaglio simile sempre pieghevole entrato pensate nella collezione permanente del MOMA di New York. Sempre tra le idee folli ricordiamo uno ski-bob messo assieme su commissione dalla nazionale svizzera (ma chi mai ha visto delle gare di ski bob? Io no, ma non sembra affatto male).

Ci siamo persi via con l’interessantissima storia di Tartarini e della Italjet nella sua interezza, ma veramente noi eravamo qui per ricordare due ciclomotori ben più recenti che si possono vantare come pochi altri di aver turbato i sogni degli adolescenti degli anni ’90. Un decennio glorioso, probabilmente più ignorante di tutti quelli che gli sono succeduti e canto del cigno dei mitici 50 cc a due tempi che volevano fare il verso alle moto da gran premio o ad altri mezzi stravaganti. Nei primi 2000 ancora qualche strascico, poi più niente, ammazzati dalle norme sull’inquinamento e da una popolazione di quattordicenni che si è appassionata all’intrattenimento virtuale offerto da YouTube e dai social network.

Dragster e Formula, due nomi che sono tutto un programma, come da tradizione Italjet. Nella storia del marchio di mezzi strani ce ne sono stati, ma questi due scooter probabilmente sono tra i più contro corrente di tutti.

Entrambi si distinguevano subito per l’anomala sospensione anteriore: invece che una tradizionale forcella c’era un forcellone monobraccio in alluminio abbinato ad un mono ammortizzatore (state un po’ attenti e notate dove era alloggiato nel Dragster) e ad una barra di torsione. L’ispirazione venne probabilmente dalla Yamaha GTS 1000 del 1993, una neanche brutta sport touring rimpiazzata nel ’99 dalla più nota FJR 1300. Il sistema impiegato da Yamaha prendeva il nome di RADD ed era stato progettato dal signor James Parker, mentre quello di Italjet portava come nome un ben più autarchico SIS, ‘sistema indipendente di sterzo’.

Il Dragster con il suo bel traliccio blu. Notate la posizione del monoammortizzatore anteriore

Il Formula in livrea Williams-Rothmans

Il risultato era una ciclistica rigidissima e poco propensa ad assorbire le sconnessioni (chi l’ha detto che le sospensioni servono a questo?), ma in compenso estremamente precisa. I due scooter, che meritano a pieno titolo l’appellativo di ferri del dio anche solo per l’audacia che c’era voluta per disegnarli, nacquero attorno alla metà dei beneamati anni ’90, prima il Formula, prodotto nella versione raffreddata ad aria tra il 1994 e il 1997 e in quella a liquido tra il 1997 e il 2000, e poi il Dragster, tra il 1995 e il 2002. Il Dragster era il più singolare dei due, perché oltre al monobraccio anteriore presentava due semimanubri e un inedito, per il segmento, telaio ‘space frame’, niente altro che un traliccio in tubi d’acciaio (che faceva da contraltare scooteristico a quello motociclistico della Monster nata lì a pochi chilometri) al quale erano aggrappate tutte le componenti e dimensionato per reggere carichi di potenza e peso ben maggiori di quelli che un 50 poteva offrire.

In effetti, il Formula, al di là del sistema sospensivo anteriore, si presentava come un normalissimo plasticone (se escludiamo il fatto che veniva proposto in una clamorosa livrea Williams-Rothmans), mentre il Dragster lasciava più che intravedere la sue sexy nudità, e che sexy nudità. Quel traliccio era ed è davvero un unicum nel mondo degli scooter, non si era mai visto nulla di simile né si è visto in seguito, almeno fino a tempi recentissimi quando proprio il nome Italjet Dragster è stato tirato nuovamente fuori dal cilindro per una nuova edizione purtroppo motorizzata quattro tempi ma dall’aspetto più cattivo e ignorante che mai.

Il nuovo Italjet Dragster, bisogna dargli atto che è grezzo e arrogante forse più degli originali

Tornando agli originali, erano interessanti anche le motorizzazioni dei due scooter. Nelle versioni 50 cc il Dragster era mosso da un classico motore Minarelli mentre sotto al Formula batteva un motore Morini, ma a questo si aggiungeva l’eccezionale Formula 125 cc a 2 tempi bicilindrico, probabilmente l’unico scooter 2 tempi pluricilindrico di sempre. Il Dragster invece venne prodotto come 125 e 180, sempre a 2 tempi. Il 180 montava lo stesso motore del Gilera Runner e tirava fuori la bellezza di 21 cavalli. Altra peculiarità dei due ciclomotori erano le ruote di diametro disuguale: anteriore da 11 e posteriore da 12, proprio come un dragster.

Italjet formula 125, due cilindri e due espansioni. Shut up and take my money!

Non sappiamo se il nuovo Dragster, per quanto possa essere figo e fuori dagli schemi, sarà in grado di rilanciare il marchio e di rimanere nei ricordi come hanno fatto i suoi predecessori. Le carte in regola probabilmente le avrebbe anche, ma oggi è il 2023 e i tempi sono cambiati profondamente. Come già detto i ragazzi di oggi non ambiscono più al motorino come facevamo noi una volta, la passione sopravvive qua e là, più che altro fuori dai grandi centri, dove i quattordicenni hanno davvero ancora bisogno di spostarsi per andare a trovare gli amici e la morosa o per andare a scuola. Negli anni 60-70-80-90 il motorino era uno status symbol. Se quello che avevi sotto le chiappe impennava e faceva rumore e fumo eri automaticamente il maschio alfa, oggi sei solo uno fuori dal tempo. Ma oggi c’è Massimo Tartarini, figlio di Leopoldo, a mandare avanti la baracca e noi, come lui, non abbiamo smesso di sognare.

Ho goduto, mi iscrivo al canale! A parte gli scherzi bellissimo articolo, scritto col quore! Ho finalmente capito le origini a 360°, il filo conduttore di tutta quella linea stilistica dei miei anni d’oro che… Se avevi un Aerox eri un pirla. Ducati, Benelli, e quella che osava più di tutti, Italjet. Meritava una menzione il videogioco arcade Radikal Bikers, dove beh consegnavi le pizze “per l’ Italia” con dei Formula50 sfidando il traffico come un kamikaze. Riuscivo a finirlo con un gettone. ;)

L’ammortizzatore del Dragster 180 è compatibile con quello Ohlins/Showa delle Ducati 748/916/996.

Quando volete scrivere due righe sul ferro del dio delle sport touring (aka Yamaha GTS) io guarda caso ne ho comprata una. 4 cilindri, 20 valvole, clamoroso monobraccio anteriore, peso e prezzo fuori da ogni logica.

Il sistema a monoforcella era un’invenzione della Bimota di Rimini, voluta dal suo fondatore Tamburini. e riferibile ad una tesi di laurea del ‘Ing.Pier Luigi Marconi; da qui il nome Tesi, moto rivoluzionaria del 1983. Quindi Italjet non ha inventato niente e Yamaha nemmeno!

Una Yamaha GTS 1000 l’aveva il designer Paolo Martin e me ne ha parlato un gran bene.

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